Parte
I.
.1
PREMESSE:
Una sera d’agosto del 2010, io e mia
moglie, uscimmo verso le 18:00, ci salutammo verso le 21:00 pensando
che ci saremmo rivisti di lì a poche ore a casa. Io tornai per primo a
casa, verso mezzanotte e pochi minuti dopo irruppero nella stanza tre
poliziotti. Mi accusarono di essere un fannullone, uno che vive sulle
spalle della comunità che doveva essere rieducato. Mi portarono via con
le manette, mi tennero in carcere la notte e al mattino mi portarono in
Questura. Nel pomeriggio, mi si presentò da un delegato del questore un
foglio di via con rimpatrio obbligatorio nel comune di residenza. Mi si disse di firmarlo in fretta: alla
mia opposizione l’ufficiale si limitò a dire che ormai era stato già
tutto preparato e dovevo attenermi a firmare ed ad eseguire quanto
deciso senza fare opposizioni. Sostanzialmente il foglio indicava che
alcuni cittadini avevano riferito che ero una persona dedita a
comportamenti delittuosi, fatto dunque rientrare dalla polizia nella
fattispecie di persone socialmente pericolose regolate dalla legge 1423
del 1956, dunque fu attivato un
provvedimento di rimpatrio a motivo di “difesa sociale”...
In genere nei cosiddetti paesi civili è
consentita la difesa, un dibattito, un dialogo o un processo ed in
effetti l’art.4 della legge 1423 del 1956 prevede l’applicazione della
proposta di pericolosità avvenga dopo che il questore ha provveduto ad
avvisare oralmente la persona dei sospetti a suo carico, indicando i
motivi che li giustificano. Invita inoltre
la persona a tenere una condotta conforme alla legge. Solo dopo essere
trascorsi almeno sessanta giorni dall’avviso, il questore può avanzare
proposta motivata per l’applicazione delle misure di prevenzione.
Quanto stabilito dalla legge è per permettere all’accusato di potersi
difendersi. Nel mio caso questo però non accadde perché
il provvedimento della polizia fu eseguito con
un’addizionale clausola “d’urgenza”: senza
rispettare in pieno tale normativa, a detta della polizia, si doveva
compiere tale operazione, passando sopra anche al basilare diritto
della difesa ed allo stesso articolo 4, per
il pericolo di «reiterazione di
comportamenti pericolosi e della conseguente lesione della sicurezza
pubblica».
Ripeto: i poliziotti irruppero nella mia
dimora nel pieno della notte, mi portarono via all’insaputa di mia
moglie che doveva ancora rincasare, scalzo: mi portarono in Questura,
là mi accusarono, in breve, di essere un delinquente abituale
socialmente pericoloso, e mi spedirono al comune di residenza con
l’obbligo di non poter tornare nel comune
ove dimoravo, per tre anni, senza nemmeno
poter fare le valigie.
Dal momento che la polizia irruppe al
momento che mi consegnarono il foglio di via, erano passate circa 14
ore, e nessuno, ribadisco, nessuno della polizia mi chiese o diede
spiegazioni: mi insultarono e basta. Dunque un po’ di luce sui quello
che stava accadendo, lo vidi solo dopo quelle interminabili ore.
Impresso nel foglio di via vi era scritto: «numerose sono le
proteste inoltrate da operatori turistici e commerciali nonché da
semplici cittadini, a causa della presenza
di
persone dedite ad attività delittuose, che costituiscono fonte di
enorme turbamento per la sicurezza pubblica». Quelle persone sopra
citate eravamo noi due parte scrivente. Ma che cosa abbiamo fatto? Mi
chiesi. Oltre a non aver avuto l’avviso orale, previsto dalla legge e
la cui mancanza può essere pena di nullità dell’intero provvedimento,
le accuse sul foglio di via non specificavano di quali delitti i
cittadini ci avevano accusato. Le accuse erano inconsistenti, essendo
state nominate attività delittuose senza indicare quali e in quali
occasioni si erano verificati tali fatti . Vi erano indicate anche
altre informazioni, ma sempre fatti remoti
o non attinenti non applicabili al caso suddetto.
Io
dunque ero stato portato via dalla polizia —e avrebbero fatto lo stesso
con mia moglie se l’avessero trovata a casa quella sera—
in base a semplici proteste di persone. Non furono
verificati i fatti, non furono formulati
reati e/o denunce querele per tali supposti fatti, non furono indicati
nemmeno gli estremi di eventuali atti immorali dei quali ci saremmo resi
colpevoli ma soprattutto non si fece quello che è previsto dalla legge,
cioè un’indagine completa sulla personalità del soggetto, cosa che
normalmente fa un giudice tramite persone competenti e che nel mio caso
fu completamente saltata per i motivi già menzionati da noi contestati
nel presente documento.
Come si evince delle varie sentenze della
Cassazione (vedi CASSAZIONE 1O
MARZO 1993), un’applicazione coscienziosa e
assennata
richiede:
§
Valutazione della personalità di chi sospettato per
pericolosità;
§
Valutazione del contesto sociale in cui questo
accade e sua influenza.
Un
avvocato intuì immediatamente l’azione descrivendola come
un sistema veloce per liberarsi di persone scomode dal
territorio, e siccome in
ballo vi era la volontà di sfrattarci dalla stanza che occupavamo,
quello era un sistema veloce ed economico, senza ricorrere alle normali
leggi di sfratto che invece richiedono mesi di applicazione.
Difatti ai fini pratici, la polizia non
solo mi sottrasse la chiave dell’appartamento sostenendo che ero un
abusivo senza contratto
—in realtà non eravamo abusivi, semplicemente non potevamo
avere un regolare contratto perché il posto non aveva la necessaria
abitabilità— , ma la polizia mi asporto pure a
forza dall’immobile portandomi in cella.
Per tirarmi fuori a “norma di legge” mi si
accusò di resistenza a pubblico ufficiale.
Noi avevamo una sola chiave
dell’appartamento e l’operazione di sottrazione della chiave fu
sufficiente per impedirci di rientrare: evidentemente non potevamo
nemmeno rivolgerci al responsabile dell’immobile per ottenere una
copia, in quanto si trattava di quella parte che aveva attivato la polizia per lo “sfratto spiccio”.
“Un caso di
spiaccia azione amministrativa invece di sentenze regolari” lo
definiamo noi prendendo a prestito una definizione letta in
pubblicazione sull’utilizzo dei campi di lavoro in Russia.
In ogni caso, ormai l’azione
amministrativa, legale o no, era stata attivata e pure il risultato
dello sfratto spiccio era stato ottimamente raggiunto.
Non solo, mia moglie rincasando non trovò nessuno ad
aprirle la porta e non avendo telefoni o recapiti reciproci ci fu
impossibile per i giorni successivi mettersi in contatto.
Preoccupato incaricai i carabinieri di
cercarla, ma passarono giorni senza avere notizie.
Del provvedimento non si poteva nemmeno
fare opposizione al questore o al giudice: ciò è possibile solo con
l’iter normale, quello previsto dal punto 4 della legge 1423 del
27/12/1956 e sue modifiche.
Preoccupato anche per le sorti di mia
moglie, volevo cercarla direttamente nel territorio e anche per tale
motivo si fece dunque ricorso gerarchico al prefetto chiedendo di
sospendere l’esecutività del provvedimento e in via principale di
dichiararlo nullo, annullabile e di nessun effetto. I motivi citati
furono sostanzialmente tre: la presunta resistenza a Pubblico Ufficiale
ascrittami era stata fatta per giustificare l’asportazione forzata
dall’immobile; mancavano le condizioni di emissione del foglio di via;
nei miei confronti non era stato emesso alcun provvedimento
giurisdizionale legittimante il
rilascio dell’immobile.
Tabella T1 sulle azioni compiute in
agosto 2010 per allontanare marito e moglie dal territorio
Nr
|
Azione
|
Descrizione
|
1
|
Asportazione fisica
|
Incursione nella stanza
con sfondamento di
porta finestra da parte di tre poliziotti (uno
dei quali capo
ispettore) e asportazione a forza in cella
|
2
|
[Click sull’immagine
per aprire]
|
In cella viene
notificata la denuncia per
resistenza a pubblico ufficiale. Non viene
specificato il motivo.
|
3
|
|
Trasporto del
marito in
Questura con emissione di foglio di Via con
rimpatrio obbligatorio (la
moglie non c’era in quel momento). Il
procedimento appare formalmente
corretto ma in realtà ad un attento esame
risulta falso e senza i
necessari i termini di legge.
|
4
|
|
Ricorso da parte
dell’avvocato per
annullamento del provvedimento del Questore.
L’avvocato evidenzia che
non era stato emesso nessun provvedimento legale
per il rilascio
dell’immobile, e dunque fa notare che il reato
contestato dalla polizia
è strumentale per avere una scusa per portare
fuori a forza la persona
dalla stanza e fargli il foglio di Via.
Il ricorso viene
accettato.
|
|
Deduzione:
a distanza di qualche
anno dai fatti si sono
dedotte queste considerazioni:
1.
Tutta la
procedura era stata preparata a tavolino con il
fine di spedire via la
persona. Ed l’operazione doveva includere marito
e moglie. Lo si capiva
dal tempo dei verbi utilizzati.
2.
Probabilmente
l’operazione “rimpatrio” fu comandata ai piani
alti da un potere
esterno: lo stesso che fece sparire le carte in
tribunale negli anni
precedenti… Serviva per riportare marito e
moglie nel luogo di nascita
per sistemarli ben bene! Chi eseguì l’operazione
fisica probabilmente
lo fece all’insaputa degli aspetti generali,
mentre certamente l’alto
ufficiale che fece il foglio di Via non poteva
non sapere…
3.
Da
notare che
mesi prima di questo fatto,
si erano
riaperte delle indagini relative a fatti già
denunciati da marito e
moglie negli anni precedenti. Serviva un’azione
per buttare fango sulle
indagini aperte e sulle testimonianze dei due in
modo da bloccarle e/o
rallentarle.
E’ interessante notare
come dopo di questi
fatti, pur tornati liberi marito e moglie
nessuno ha aiutato i due e li
hanno letteralmente lasciati a loro stessi. Nel
2013, quando chiesero
per l’ennesima volta un intervento al sindaco,
questo rispose, per
iscritto “siamo sempre stati disponibili a
fornirvi le risorse
economiche per rientrare nel vostro comune di
residenza…”. E questo la
dice lunga di come il foglio di via rimase
attivo. Ovviamente se
nessuno aiuta, si finisce con il lasciare il
territorio… (foglio di via
indotto). Il sindaco continuò su questa strada
seppur invitato ad
intervenire da parte del sostituto del difensore
civico nazionale.
La cosa che preoccupa
marito e moglie è che
se il sindaco non interviene, rischiando
in questo maniera una denuncia per
omissione c.penale
art.328 , è che ci sia un potere trasversale tra
forze dell’ordine,
magistratura e persone del territorio che è
superiore alla legge e che
questo potere possa coprire atti illeciti .
|
Quanto fatto dalla polizia narrato nelle
premesse (punto precedente) ebbe degli effetti ben precisi, che non
vennero risolti con il ricorso gerarchico. In pratica:
1.
L’esecuzione dei provvedimenti a “difesa sociale” rimase
pendente e cioè rimanemmo nel periodo successivo fino a tutt’oggi in
pericolo che la polizia reiteri il provvedimento già fatto. Primo, perché era evidente che il
provvedimento doveva essere attivato anche su mia moglie, e che non lo
si attivò solo perché non riuscirono a trovarla né quella sera né i
giorni successivi. Secondo, perché non sono state smontate
completamente le tesi accusatorie, non avendo avuto la possibilità
finora di esercitare il nostro diritto di difesa. Cioè la polizia è
ancora convinta che siamo persone pericolose.
2.
Fummo sbattuti in strada, in condizioni di indigenza e non
potemmo più rientrare nell’appartamento e prendere le nostre cose.
3.
Fummo infangati dall’azione della polizia, la quale andò a
rinforzare quanto già di ingiusto avevano riferito i cittadini
implicati. La tesi della polizia sulla nostra “pericolosità sociale” si
andò poi a spalmare su tutte le autorità locali e non, compresi i
carabinieri e polizia municipale, creando un clima ostile generale e
influendo indirettamente sugli organi preposti ad aiutare le persone in
stato di bisogno, cioè, assistente sociale e organismi umanitari. In
pratica, per la nostra pericolosità ci lasciarono senza aiuti sociali,
in linea con chi doveva allontanarci, come narrato nella parte III.
In
generale dunque, fummo accusati in modo ingiusto senza possibilità di
difesa, fummo screditati, ci fu infangato il nostro nome, fummo
estromessi dalla vita sociale e additati come persone pericolose
socialmente. Fummo e siamo tutt’ora confinati ad una vita ai bordi
della società. Peggio dei criminali. Dopo l’azione della Polizia
nessuno ci aiutò più, né Caritas né i Comuni e vivemmo senza casa in
rifugi di fortuna. Alla data che vi sto scrivendo,
sono passati più di tre anni, e permane questa situazione.
Furono fatti degli esposti e/o denunce ai CC e alla Polizia e alla
Procura della Repubblica: nessun esito!
Parte
II.
DIFESA
.3
In generale
(A)
Introduzione
Ancora prima dell’operazione di “spiccia
amministrazione” messo in atto dalla polizia, ancora un anno prima,
cioè da quando cominciammo a vivere nella provincia in cui si
verificarono i fatti in oggetto, eravamo in contatto con i carabinieri
di un comando fuori regione. Questi conoscevano bene la nostra
situazione, e noi avevamo continuato ad aggiornarli sui fatti che ci
stavano accadendo anche nella nuova provincia, tentando anche di
individuare il “filo nero” che collegava fatti vecchi a nuovi...
Già in settembre ‘09 segnalammo la nostra
situazione, in poco meno di una decina di pagine, e cioè di come in
zona non si riusciva ad ottenere un aiuto sociale e un lavoro, e
spiegammo per filo e per segno come dovemmo arrangiarci a procurarci
cibo per campare. Già in dicembre 2009 segnalammo come erano sorte in
loco diffamazioni sul nostro conto e avevamo chiesto un intervento per
risolvere alcuni problemi legati alla privacy e sicurezza. Seguirono
altri contatti. Le diffamazioni ad un certo punto raggiunsero un tale
ardore che qualcuno pensò di utilizzare i carabinieri per farci
sloggiare, insinuando anche in questi convinzioni assurde. Nel momento
in cui i carabinieri intervennero con molto impeto, credendosi di
trovarsi davanti a criminali di mestiere, spiegammo la situazione, ci
fu dato modo di difenderci: questi si misero in contatto con i
carabinieri umbri che erano al corrente dell’intera situazione.
L’intermediazione dei carabinieri bloccò l’insensatezza delle accuse.
Questi CC erano una pattuglia del vicino
paese.
Vi fu un secondo intervento dei CC, questa
volta proprio quelli del paese in cui dimoravamo: questi non riuscivano
ad avere una visione obiettiva dell’intera questione per la loro
appartenenza all’ambiente. Tuttavia non si prestarono completamente ad
essere utilizzati per farci allontanare: consegnammo loro una lettera
scritta a mano, descrivendo come vivevamo, chiedendo aiuto per fare
chiarezza. E’ da evidenziare che I CC, intervenuti due volte, non
trovarono mai elementi che giustificassero le accuse rivolteci, come
nemmeno prove di reati o atteggiamenti immorali.
Chi si era prodigato a chiedere
l’intervento dei CC, non ottenendo i risultati, escogitò dunque ad
un’altra strada. Alcuni cittadini andarono
dal sindaco e ci accusarono di vivere tramite delitti. A questo punto
tutti assieme si attivarono presso la polizia.
(B)
Dunque
Non ci rimase altro che star distante dalla
polizia, e da tutto ciò che ne è correlato. Tentammo di
capire come funziona la legge sulla pericolosità. La
nostra difesa è espressa in due direzioni principali: la prima diretta
a dimostrare che il provvedimento attuato dalla polizia non è avvenuto
secondo le prescrizioni di legge. La seconda diretta a raccontare la
nostra vita, evidenziando “etichette negative”attribuiteci nel passato,
o desunte attualmente dal comportamento di alcune persone.
.4
Contestazioni: sull’illegittimità del provvedimento
(A)
In generale
Scoprimmo che seppur
non si poteva adire al giudice per opporsi al giudizio stabilito dal
questore, una sentenza della CASSAZIONE del 29/10/1993
stabiliva che «al giudice
è consentito esercitare su detto provvedimento il solo sindacato
di
legittimità consistente nella verifica della conformità di esso
alle
prescrizioni di legge, tra le quali rientra l’obbligo della
motivazione sugli elementi da cui scaturisce il giudizio di
pericolosità del soggetto» (Cass. mass.dec. pen. 1994,
n. 195.337).
Ci rendemmo dunque conto che l’atto della
polizia non conteneva motivazioni concrete limitandosi a riportare
accuse generiche e non corrette.
Il punto principale che fece scaturire
l’operazione di rimpatrio furono le proteste dei cittadini, che sono
riportate nel provvedimento in termini generici.
Gli altri punti iscritti a spiegazione del
provvedimento sono strumentali, semplicemente perché l’esecuzione della
polizia partì proprio dalle proteste suddette, finalizzate alla nostra
cacciata: in pratica chiacchiere di paese che intravedevano in me e mia
moglie due delinquenti a causa di una situazione del tutto particolare.
La cacciata doveva essere semplicemente
eseguita, senza possibilità di appello o ricorso: di conseguenza la
polizia utilizzò la “scusa” di una pericolosità sociale, definendomi
“riconducibile all’articolo 1 punto 3 della legge 1423 del 27/12/1956.
Si tratta della strumentalizzazione di un
incidente accaduto nei territori di Padova, ancora nel 2005. Ci fu
qualcuno delle forze dell’ordine che all’epoca tentò di dare un suo
giudizio psicologico al problema, comunque
per il fatto io non rientrai mai
nell’articolo 1.3.
Qualora fossi rientrato nell’articolo sopra
citato, per pericolosità sociale, l’operazione avrebbe dovuto essere
attuata dalle istituzioni di Padova.
Invece gli agenti di queste zone si
arrogarono il diritto di inserirmi in tale livello di pericolosità, pur
non essendo competenti per loro funzione e per territorialità.
(B)
Contestazione-1:mancanza della competenza
territoriale
La prima contestazione riguarda dunque
proprio l’uso di tale fatto del 2005,
qualcuno tento di attribuire spiegazioni psicologiche al fatto:ma non
rientrai mai nelle leggi di prevenzione. La polizia non può utilizzare
un fatto remoto, successo in altra regione, per farmi ricondurre a una
persona socialmente pericolosa delle fattispecie previste dalla legge.
A fare ciò dovrebbe essere stata una sentenza emessa da qualche
organismo competente territorialmente, cioè Padova. Quindi manca il
requisito della competenza territoriale.per stilare l’affermazione
contenuta nel foglio di via. Dunque il fondamento di partenza su cui si
basa il provvedimento non è a norma di
legge al fine per cui è stato usato.
(C)
Contestazione-2:fatti non attuali
Il fatto utilizzato a fondamento del foglio
di via, già descritto nella contestazione precedente, non è applicabile
ai fini del foglio di via perché non costituisce, come stabilisce la
legge, fatto attuale né tanto meno
accaduto nel territorio.
(D)
Contestazione-3:mancanza categoria
La legge stabilisce che
nel provvedimento debba essere specificato il soggetto in quale
categoria di persone rientri: l’indicazione dell’articolo 1 punto 3
della legge 1423 del 1956 è infondata, perché è una loro attribuzione,
non un misura effettivamente presa nel territorio in cui si è
verificato l’evento. Accogliendo anche solo una delle contestazioni
precedenti, anche la categoria indicata non avrà più significato.
Risulterà dunque il provvedimento orfano di uno degli elementi
essenziali per la sua validità.
(E)
Contestazione-4:motivazioni generiche
Le motivazioni sono riportate nel
provvedimento in termini generici: di fronte a queste non si può
esercitare un serio diritto alla difesa, perché troppo ampie ed
ambigue. La polizia non ha seguito quindi quanto stabilito dalla
Cassazione dove dice:”Il procedimento di prevenzione ha carattere
giurisdizionale e ad esso sono applicabili le garanzie previste
per il
giudizio di cognizione a tutela dei diritti di difesa,
dell’assistenza
e della rappresentanza dell’imputato… Ne deriva che la
contestazione
non può essere attuata… dalla mera indicazione della misura di cui
si
chiede l’applicazione, ma con l’indicazione,precisa e chiara,
del
tipo criminologico (ozioso, vagabondo, sospetto di
appartenenza ad
organizzazione mafiosa), riferibile ad una delle
fattispecie
previste dalla legge, nonché con
l’esposizione, sia pure succinta, degli elementi indiziari
che
sorreggono la proposta (CASSAZIONE: 12 GENNAIO
1987.Cass. pen.,
1988 1100).
Si trattava ovviamente di chiacchiere e
null’altro perché alle ipotetiche attività delittuose delineate dai
misteriosi cittadini, non seguì mai una denuncia precisa o fatti
circostanziati di reati o comportamenti contrari alla Costituzione o
immorali! Condannare una persona o limitare la libertà della persona
prevista dall’.Art 13 della Costituzione senza che vi siano prove a
riguardo e senza un regolare processo è una cosa grave e allarmante:
situazioni del genere capitano o capitavano nei regimi totalitari
durante le persecuzioni politiche e/o razziali e hanno sempre
costituito un grave avvertimento. La mancanza di accuse specifiche mi
impedì di fatto, e mi impedisce tuttora, di poter esercitare il mio
diritto della difesa, contrapponendo alle accuse un’adeguata difesa.
Ad esempio, mi si accusa di furto, di
spaccio, di atti osceni in luogo pubblico? Cosa turba così tanto le
persone del luogo, in zone dove lo spaccio di droga o l’offerta di
prestazioni sessuali è notevole, data la presenza di locali, night e
discoteche e luoghi di divertimento?
(F)
Contestazione 5: mancanza dell’avviso di orale
Come recita la legge e sue modifiche del
1988, “l’applicazione dei provvedimenti di cui all’art. 3 è consentita
dopo che il questore nella cui provincia la persona dimora ha
provveduto ad avvisare oralmente la stessa che esistono sospetti a suo
carico, indicando i motivi che li giustificano. Il questore invita la
persona a tenere una condotta conforme alla legge e redige il processo
verbale dell’avviso al solo fine di dare allo stesso data certa.
Trascorsi almeno sessanta giorni e non più di tre anni, il questore può
avanzare proposta motivata per l’applicazione delle
misure di prevenzione al presidente del tribunale avente sede nel
capoluogo di provincia, se la persona, nonostante l’avviso, non ha
cambiato condotta ed è pericolosa per la sicurezza
pubblica.”
L’azione della polizia doveva essere una
cacciata, semplicemente eseguita: ne consegue l’esigenza di consegnare
foglio già pronto, di impachettarci con la “scusa” di una falsa
precedente pericolosità sociale.
Nessuno ci ha avvertito dell’apertura di
tale procedimento con relativi sospetti a nostro carico: non è quindi
consentita l’applicazione dei provvedimenti di cui all’articolo 3. Il senso della legge è infatti
consentire
alla persona sospettata la sua discolpa e/o il ripristino di un
comportamento congruo alla società civile ed alla morale: nel caso
questa non voglia operare in tal senso, si prendono adeguati
provvedimenti, come previsto.
La cassazione conferma il valore
dell’invito, necessario come strumento per la stessa accusa: se
l’invito non porta accuse ben formulate, il provvedimento è annullabile.
CASSAZIONE: 29 GENNAIO 1990. — L’invito ai sensi dell’art. 4 L.
27
dic. 1956 n. 1423 alla persona nei cui confronti e` chiesta
l’applicazione di una misura di prevenzione e` da considerare, come la
citazione a giudizio, un veicolo di contestazione dell’accusa, e
pertanto deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione non
solo della misura di cui si chiede l’applicazione, ma anche della forma
di pericolosità posta a fondamento della richiesta (Cass. pen.,
1991, 815).
(G)
Contestazione 6: reato strumentale
Il [xxxxxx] di agosto 2010, ancora
prima di emettere il foglio di via, la polizia
mi contestò il reato di “resistenza a Pubblico Ufficiale”. Fu un reato
fittizio e strumentale per giustificare l’asportazione a forza
dall’immobile e l’emissione del foglio di via. Non era stato emesso
nessun provvedimento giurisdizionale legittimante il rilascio
dell’immobile: ad esempio sfratto esecutivo, sequestro civile,
sequestro penale. Il reato è da considerarsi dunque puramente infondato
e strumentale al fine di liberare la stanza e essere portato via in
manette. Non è da considerarsi nemmeno laddove è inserito nel foglio di
via come elemento legittimante il provvedimento stesso: “un caso di
spiaccia azione amministrativa invece di sentenze regolari”.
(H)
Mancata valutazione della destinazione
Nell’emettere il foglio di
via è stato scelto di rimandare la parte scrivente
automaticamente nel relativo comune di residenza, senza
valutare se questo fosse il luogo più idoneo e opportuno. Si veda
la
narrazione a “le etichette del passato, numero 8.B.
.5
Le etichette del passato
(A)
In generale
La storia che siamo persone che si dedicano
ad attività delittuose, così come riportato nel foglio di via non è
nuova, è nata in altre regioni e già in passato qualcuno ha tentato di
utilizzare le forze di polizia per mettere in atto un’azione simile a
quella che è accaduta in agosto 2010, come narrato nelle premesse
(punto .1). Da vari anni per proteggere la nostra vita abbiamo dovuto
cambiare spesso paese e siamo entrati in varie Questure a chiedere una
mano. Di accuse senza fondamento né
abbiamo avute tante, e più di qualcuna in questura o dai carabinieri,
davanti ad un colloquio o dibattito, è stata svelata per quello che
era: chiacchiera e/o diffamazione. Le etichette con le quali siamo
stati descritti si sono sprecate: i motivi di questo fenomeno non
stanno nella sintomatica valenza delle stesse diffamazioni, ma per
delle situazioni mai risolte dalla polizia, che continuano a produrre
malintesi in ogni posto ove andiamo, oltre che un’azione di fondo
diretta a screditarci o a renderci la vita impossibile. Questi
argomenti sono già stati affrontati in altri documenti inviati
all’autorità!
Per capire cosa sia successo e abbia
portato la polizia ad agire in tale maniera in agosto è dunque
necessario ripercorre le tappe di quanto accaduto precedentemente, e
cioè l’uscita dalla regione natia e la situazione vissuta in
centro-Italia. Lo facciamo nei prossimi punti.
(B)
Costretti a lasciare la regione natia
Dall’anno 2000 incominciò una persecuzione
di un imprenditore in ambiente lavorativo. L’azione fu diretta sia alla
ditta dove lavoravamo io e mia moglie, sia a titolo personale. L’apice
dell’azione avvenne tra il 2004 e il 2005 quando riuscì a mettere in
crisi la ditta e a farci perdere ad entrambi il lavoro
Questo uomo d’affari condusse un’azione
diffamante all’interno sia degli ambienti lavorativi veneti sia del
comune di residenza. Non potemmo
difenderci perché: non vi era una legge contro lo stalking come invece
in altri stati; in aggiunta lo stato di povertà indottoci rendeva
difficile un’adeguata difesa, nei confronti di chi era ben dotato di
soldi, avvocati ed amicizie.
Su tutta la storia incise profondamente
l’impossibilità di ottenere un’assistenza dai parenti e affini. Noi non
avevamo più contatti con i parenti dall’anno 2001, vivevamo
completamente indipendenti e senza rapporti, per gravi ragioni portate
a conoscenza all’autorità.
Il nostro comune di residenza non solo non
si adoperò per difenderci, ma evitò pure di aiutarci socialmente per la
sopravvenuta condizione di povertà.
Contestualmente a ciò si verificò un
incidente, nel 2005, che vide coinvolto Aleandro*: qualcuno delle forze
dell’ordine, più che una ricostruzione sistematica, predilessero
un’interpretazione psicologica del fatto, nonché priva delle competenze
mediche, ipotizzando scenari apocalittici futuri di commissione di
chissà che reati. Per quanto riguarda gli scenari apocalittici previsti
per Aleandro*, non si verificò nulla.
ma non vi era
modo per ristabilire la verità: se avessero lavorato correttamente, il
fatto sarebbe costituito un caso civile, nemmeno penale.
La fuga dal paese senza aiuti fu
inevitabile. Senza lavoro e ben presto senza soldi, senza più un
automobile, senza dei parenti o affini che potessero aiutarci, e senza
l’appoggio dei servizi sociali, l’uscita dalla regione natia fu l’unica
scelta possibile.
in nessuna casa d’accoglienza o ente
collegato direttamente alla Pietas*.
Parte
III.
Emergenza abitativa
.6
Dopo l’operazione di “sfratto” spiccio di
agosto 2010, narrato nella parte I del presente documento, ci trovammo
ad essere senza un posto dove vivere e senza la possibilità economica
di pagarci una stanza. Ovviamente non potevamo più stare nel Comune ove
erano accaduti quegli spiacevoli fatti, non potevamo nemmeno cercare
una soluzione negli ambienti della chiesa, per quanto già detto nella
parte II, e non potevamo nemmeno vivere in regione natia. Cominciammo
dunque a vivere nel Comune confinante, più
grande del precedente, ed è qui che si verificarono i fatti successivi.
“Emergenza abitativa” viene definita
dal Comune la situazione di chi si trova, per varie ragioni, senza un
posto dove dormire, e non sia in grado di risolvere il problema da
solo, per vari motivi, come lo sfratto. A noi è capitato proprio quello
che andiamo narrando: presentatici agli uffici del Comune di giovedì
per un’emergenza abitativa, ci è stato fissato un appuntamento per
lunedì, 25 ottobre 2010, e il lunedì l’assistente sociale non ha preso
l’incarico di risolvere il problema. Ci ha rimandato a provare a
bussare alla chiesa. Per esperienza precedente, sapevamo che avere un
posto al dormitorio gestito dalla chiesa occorreva però parlare prima
con il responsabile e si va dunque al successivo mercoledì, per sapere
infine mercoledì che non c’era posto perché le strutture erano piene,
ed essere rincuorati di provare venerdì che forse se qualcuno va via
prima un posto lo troveranno… Intanto passano i giorni, e il comune o
la chiesa sembrano sperare che uno si abitui a dormire fuori, tanto lo
fanno già in tanti, e magari capita pure che ti dicono “tanto è solo
una questione
di abitudine, non si muore mica…”.
Forse se ci si presenta separatamente nei
dormitori, un posto uno dei due l’avrebbe trovato prima o poi, ma noi
di separarci non ne avevamo voglia visto, che la nostra unione era
l’unica cosa che ci era rimasta dopo aver perso lavoro, auto e casa.
Era improponibile che fosse entrato nel dormitorio solo uno dei due,
mentre l’altro sarebbe rimasto fuori esposto al pericolo, almeno in due
ci facevamo coraggio e ci davamo assistenza reciproca, che poi, se
qualcuno ricorda bene, è anche una delle cose che si promettono durante
il matrimonio.
Per capire queste cose non è necessaria la
laurea dell’assistente sociale, occorreva invece un po’ di esperienza e
un po’ di cuore. I dormitori costituiscono
delle soluzioni per le persone disadattate, per gli ubriaconi, per i
barboni…; dopo che sono stati chiusi i manicomi, si rifugiarono le
persone con problemi psichici non gravissimi, poi vi sono spacciatori,
prostitute, delinquenti, badanti che transitano nel territorio… ed in
ultima analisi anche qualcuno che ha perso il lavoro ed ha divorziato,
lasciando l’appartamento alla moglie. Diciamo che sono posti per
single, non per una famiglia, ma sembra non volerlo capire nessuno.
Quei servizi per i civili cittadini che
sono catalogati con il termine “emergenze”, sono fasulli, perché non
trattati con tali modalità: sono destinati ad ispirare false
aspettative: cioè tempestività nel risolvere il problema sollevato e
compimento del servizio con un sano senso del dovere. Dai giornali ogni
tanto si apprendono queste situazioni, di gente che è rimasta in
strada, ma i giornali riportano solo pochi casi rispetto a quelli che
accadono, ad esempio non il nostro.
Dunque il servizio “emergenza abitativa”
si comporta come, pur avendo il nome, una non emergenza!
Poco importa sia erogato da servizi sociali o da organismi
della chiesa. E questo è successo a noi, ma anche ad altri. Non
vogliamo dire con questo che il sistema non funzioni mai, funziona solo
in parte e non nei termini che sarebbe normale aspettarsi. Inoltre i
vari uffici sono gestiti come gli sportelli di banca, con degli orari
prefissati, e come questi subiscono una burocratizzazione che annulla
l’essenza del servizio stesso. Anzi peggio delle banche, perché queste
hanno degli sportelli bancomat aperti a tutte le ore che risolvono il
problema dei contanti.
Le
conseguenze furono ovvie: noi dormimmo fuori.
Considerato quanto esposto nella prima e
seconda parte di questo documento, non abbiamo alcuna intenzione a
recarci presso le strutture caritative, essendo questa una della
principali cause di tanti nostri problemi.
Sembra che l’assistente sociale non abbia
voluto capire nemmeno questo, pur avendole consegnato un documento con
la narrazione dei fatti di Agosto 2010: questa è la pressi, assurda,
come se un medico per prassi assegna la stessa medicina a tutti i
pazienti, anche a chi ne è allergico.
Lo Stato italiano non intervenne in nostro
aiuto in qualità di cittadini,
Si legge infatti all’Art. 3 della
Costituzione: “È
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione
politica, economica e sociale del Paese”. Si legge che è compito della Repubblica e
non
della chiesa!
A
questo punto l’assistente sociale trasformò il nostro caso da
“emergenza
abitativa” a condizione normale, semplicemente facendo
diventare
casa la strada.
Non risolse l’emergenza abitativa, ci
lasciò in strada, ma non rifiuto di aiutarci del tutto: disse che il
comune comunque poteva assisterci in un progetto più lungo termine, ad
esempio poteva fornirci dei soldi per la caparra e primo mese di
affitto, nel caso avessimo trovato un lavoro ed un appartamento dove
stare, e ci avesse conosciuto meglio… Sembra, dunque, dalle parole
dell’assistente sociale, che solo i lavoratori in Italia abbiano
diritto alla casa, dal momento che non hai più un lavoro non hai
nemmeno più diritto ad un tetto. Ed il lavoro te lo devi pure trovare,
e mantenere, con i mezzi che la “strada” ti dà. “Battendo”, come
prostitute? Fingendosi improbabili “artisti di strada”?
Dovevamo arrangiarci.
Preoccupati di non farcela per il freddo,
le intemperie, andarsene in giro con la valigia e le coperte, i segni
evidenti di una certa fatica sul volto…..cercammo di argomentare la
nostra difesa.
E poi soprattutto, come si fa a trovare
lavoro e tenerselo quando non sai neanche dove e come passerai la
notte? Non hai neanche un domicilio da dare al datore di lavoro: con
che faccia ti presenti?
Inutile argomentare la nostra causa:
l’assistente sociale ci rispose che non si muore mica vivendo fuori, :-
“E’ solo questione di abitudine” ci replicò. Ribattemmo che non fanno
il necrologio sul giornale per chi crepa perché il fisico non regge
più, e non fanno statistiche serie per vedere che fine fa le gente in
queste condizioni ed in che tempi.
Così l’emergenza abitativa fu trasformata
dalle operatrici del comune in “condizione normale”, la normalità di
chi “è abituato a vivere fuori”. È prassi di molti comuni comportarsi
così.
Il sistema adottato dall’assistente sociale
è stato dunque lo stesso che si usa nel buttare una persona in acqua,
per farla imparare a nuotare: se crepa si fa un funerale, se sta male
si arrangerà l’ospedale, se sopravvive si arrangerà a galleggiare; in
ogni caso il problema è risolto o non è più di competenza.
Cosa e’ successo poi
Una persona del Comune, con un ruolo
diverso da quello dell’assistente sociale, non riuscendo a trovare
soluzioni, ci consigliò di provare a parlare con persone facoltose o
commercianti, per vedere se potevano interessarsi al nostro caso. Ma in
pratica noi dormimmo fuori, fino a che la mattina di lunedì primo
novembre ci trovarono dei muratori e degli impresari, che dopo una
grossa imprecazione, si mostrarono più pratici, e decisero di farci
dormire dentro il capannone.
La sera seguente di martedì pioveva a
dirotto e gli impresari ci aspettarono: ci diedero delle coperte da
mettere sul pavimento perché fosse meno freddo, il loro capo ci offrì
una bottiglia di vino, una di acqua e un pezzo di pane, con la promessa
di interessarsi in Comune; lasciarono aperto il bagno affinché
potessimo usarlo.
Tra queste persone vi erano gente con soldi
e fabbriche nella provincia: sembrava in un primo momento che potevamo
restare lì almeno fino alla fine dei lavori verso il 13 novembre.
Potevamo utilizzare quel tempo per mettere giù le borse, che ci
portavamo sempre appresso, per lavarci in un bagno con l’acqua calda,
un tempo necessario per riorganizzarci, cercare qualche lavoro in zona
in condizioni decenti; avevamo nuove speranze, anche la sensazione di
non essere più da soli.
Il capo degli impresari, un uomo pelato,
ebbe la malaugurata idea di chiedere aiuto al parroco del paese.
Mercoledì sera il capo ci disse di aver parlato con il parroco e ci
invitò a spingerci nel capoluogo nelle strutture della chiesa:
ribattemmo che là non vi erano soluzioni. Dopo il colloquio il capo ci
promise comunque che potevamo restare nel capannone fino al 13-14
novembre, data in cui avrebbero chiuso le porte esterne del capannone.
Già quella sera avevamo individuato come il parroco aveva gelato la
situazione, e altri possibili interventi: la gente ci guardava
schifata.
Nel giro di un giorno quei facoltosi
signori avevano cambiato atteggiamento nei nostri confronti. Giovedì
non vedemmo nessuno, ma venerdì mattina degli operai ci dissero che
dovevamo prendere la nostra roba e andare via, perché loro la sera
avrebbero chiuso tutto. Avevano avuto l’incarico dal capo, il testa
pelata. Noi ci trovammo dunque i termini cambiati nuovamente. Il modo
di comunicarci quello “sfratto” e i tempi ristretti (mattina per sera)
furono di una violenza gratuita, perché noi eravamo usciti senza borse
e con dei progetti ben specifici.
Ci trovammo di nuovo tutto il mondo
addosso, a causa di un prete che senza nemmeno averci visto, aveva dato
disposizioni sulla nostra vita. Noi non trovammo altre soluzioni e
continuammo a dormire in quel posto perché per fortuna, nonostante
quanto detto, non buttarono fuori le nostre borse e lasciarono la porta
aperta. Non vedemmo più il “testa pelata” fino alla mattina del 12
novembre quando lo incontrammo per caso per strada. Incominciò dunque
una discussione durante la quale ci disse che era molto offeso perché
non gli avevamo raccontato la verità, e cioè, che eravamo stati
sfrattati da 3 mesi e che stavamo conducendo quel tipo di vita da
agosto: proferiva tali parole come se fossimo della gente abituata a
tale tipo di vita “vagabonda”.
Replicammo che non avevamo nascosto nulla,
che il tipo di vita che fummo costretti a subire lo raccontammo
all’assistente sociale, e che ne avevamo
parlato pure con uno che pareva essere un suo socio da come si era a
noi presentato. E avevamo informato anche i carabinieri. Non credette
alla nostra informazione, ci disse:- “Ai carabinieri? Non raccontate
balle, li ho chiamato io stesso e si sono detti pronti a intervenire
per mandarvi via…”. Ancora prima che spiegassimo che eravamo in
contatto con carabinieri fuori paese, aggiunse che aveva parlato della
nostra situazione anche con il vice-sindaco, che è capo dei vigili e
che si era accordato, che se nel caso non avessimo portato via le
nostre borse di spontanea volontà, i vigili sarebbero intervenuti ad
asportarle.
Dal colloquio risultò chiaro che il “testa
pelata” aveva ricevuto notizie poco rassicuranti nei nostri confronti e
questo alimentò il suo voltafaccia. Questo accadde il giorno che
incontro il prete, e fu certamente tale fonte a fargli fare il
cambiamento repentino: difatti risultò chiaro che egli non parlò né con
l’assistente sociale né con altre persone del comune da noi informata
in proposito.
Risultò che qualcuno, dopo che il prete
venne a sapere che eravamo nel capannone, mandò i vigili a controllare
il capannone e questi fecero varie storie al “testa pelata” per aver
trovato la nostra valigia nei locali. In quei locali vi era di tutto,
comprese varie coperte che erano usate per i lavori dagli operai,
tavoli, sedie, una cucina nel mezzo del capannone… una valigia poteva
passare del tutto inosservata in quell’ambiente. I vigili vennero a
controllare la situazione, ma noi sappiamo che non lo fanno di propria
spontanea volontà, soprattutto se è socio del capannone il vicesindaco:
era certo che qualcuno li aveva mandati e aveva mosso tutto quel
casino. Il prete o chi per esso, innescò dunque un processo
denigratorio nei nostri confronti che coinvolse come una reazione a
catena, il testa pelata, il vice-Sindaco, la Polizia Municipale e i
carabinieri locali: TUTTI COINVOLTI IN UNA AZIONE DI PULIZIA SENZA
SAPERE ESATTAMENTE LA VERITA’.
Paradossale
l’accusa che le autorità e la gente come il “testa pelata” ci
muoveva
contro: quella di vivere quel tipo di vita “all’aperto”, quando
erano
state proprio le autorità, il Comune e la gente stessa a creare le
suddette condizioni, diventando dunque causa diretta e indiretta.
Arrivammo alla seguente concessione: fino a
quando non ci sarebbero state le serrature, potevamo entrare nel
capannone, così il “testa pelata” non avrebbe dovuto giustificare la
nostra presenza, in caso di qualche malaugurato incidente. In fondo era
tutto aperto.
Era solo un trabocchetto: alle 6:30 del 16
novembre 2010 irruppero due pattuglie, una composta da un paio di
carabinieri ed una da tre vigili urbani: ci sbatterono fuori dal posto,
che non aveva le serrature, e ci portarono in caserma, facendo discorsi
infondati ed offensivi. Rimanemmo là, nella sala dei fermati, fino alle
11:00. Nessuno ci diede spiegazioni: ci mandarono via, sotto la pioggia
con le nostre borse, e con il consiglio di non avvicinarci più ai
luoghi del capannone.
Ora se vogliamo sopravvivere, dobbiamo
arrangiarci: evitiamo come la peste le strutture della Chiesa, per
tutto quel male che ci hanno fatto. Della gente non ci si può fidare:
non sai chi te li manda, a che fine e se cambieranno idea. Non ce la
sentiamo di coinvolgere persone anche in buona fede, in una vicenda
intricata come la nostra, che andrebbe sbrogliata da chi di competenza.
Viviamo sempre con l’incubo di trovare un
riparo, di trovare da mangiare, di non stare troppo male, di non
incontrare delinquenti o altri zelanti giustizieri. Se questa si può
chiamare vita….
Dunque di fatto il Comune a tutt’oggi non
ci ha dato nessuna forma di assistenza, adducendo che non siamo
residenti o perché non abbiamo un lavoro.
E’ vero che non siamo residenti e abbiamo
per questo meno diritti di altri ma è parimenti vero che il “cavillo”
della residenza —usato molte volte per giustificare la mancanza di
attivazione di aiuti nei nostri confronti— è
stato introdotto nella legge per evitare abusi. Lo sappiamo bene,
perché in Regione2* un assistente sociale di un paesino aveva deciso di
aiutarci, affittandoci una stanza a spese del Comune: la pratica per i
non residenti in loco è solo un po’ più lunga, non è contro la legge
aiutare i non residenti. Poi alcune sigle sindacali si erano offerte
per la ricerca di lavoro. I posti che il Comune affittava erano di
proprietà della Curia, in possesso di molti fabbricati: la Curia non ne
volle sapere, preferiva perdere un affitto piuttosto che dare un posto
a noi, come ben previsto dal direttore di Gubbio.
Quindi, una volta verificato che il nostro
è un caso atipico, e che non si vuole commettere alcun abuso, dovrebbe
essere possibile scavalcare tale limite generale. Diversamente
l’applicazione della legge diventa un’applicazione incivile e insensata
e in contrasto addirittura con la Costituzione, perché il requisito
della residenza, applicato a chi per motivate ragioni non può essere
aiutato in tale Comune, diventa una disparità sociale.
.7
Una civiltà che nasconde i problemi
Quando si vive fuori si deve nascondere la
propria condizione, perché la nuova situazione di debolezza è in grado
di per sé di attirare le situazioni più subdole. Vi può essere chi si
avvicina per offrirti dei soldi, in cambio di prestazioni sessuali, in
ogni caso si è esposti alla crudeltà umana, all’ingiustizia,
all’ignoranza e alla delinquenza.
La cosa che fa più rabbia è la condizione
di chi trovandosi a dormire dove capita riceve il disprezzo gratuito
degli altri. Parte di quel disprezzo proviene dalla convinzione che uno
abbia deciso di fare tale tipo di vita, e nel caso cambiasse idea, si
pensa che la civiltà gli offra tutte le possibilità di inserimento in
un tessuto sociale normale. Magari a volte questo accade, ma noi
abbiamo sperimentato il contrario, cioè come due persone siano spinte a
disinserirsi dalla società, dal sistema produttivo con il ricatto che
“se non ti trovi un lavoro, io non ti aiuto, perciò te ne puoi stare ai
margini”. Non è un momento in cui si trova lavoro facilmente, questo
ricatto non serve per spronare “i fannulloni”: si è trattati come figli
viziati, ai quali è negata la paghetta, ma qua di viziata c’è solo la
burocrazia o l’incapacità, che ti lascia privo del necessario.
L’opinione pubblica è all’oscuro di come
funzionano realmente i servizi per i poveri, o per quelle persone
diventate povere a causa di fatti improvvisi, o perdita di lavoro. Non
hanno coscienza di come funzionano le strutture che si occupano dei
poveri e non hanno la minima idea di che cosa significa entrare in tali
contesti.
In tutto questo, dunque questo documento
rappresenta un atto dovuto, un dovere che si siamo sentiti di esprimere
per sopprimere quel senso di omertà che sta attanagliando l’Italia e
che sta dividendo i cittadini, compresi quelli che ci guardano male,
vedendoci girare con la valigia, convinti che siamo gente oziosa, alla
quale piace vivere in suddetta maniera. Anche quest’ultimi sono liberi
di guardarci come vogliono, ma almeno sapessero realmente come sono
andate le cose.
Quanto costa allo stato
non
risolvere un’emergenza
Sembrerebbe che far a meno di risolvere
un’emergenza come la nostra corrisponda a un risparmio per le casse del
Comune e dello Stato, ma è proprio così? Nutriamo seri dubbi in
proposito, e vediamo perché.
Una famiglia che è lasciata in strada
difficilmente uscirà da quella condizione, più facile che subisca
problemi gravi alla salute, che necessiteranno un ricovero in ospedale,
o che si rivolga alla malavita per risolvere i propri problemi: dunque
spaccio o manovalanza criminale.
Nel primo caso, un ricoverò all’ospedale,
che oggi è garantito a tutti, costa da un minimo di 600 euro a un
massimo di 2000 euro a giornata. Solo pochi giorni in ospedale superano
l’affitto di una stanza per alcuni mesi.
Nel caso della malavita è difficile
quantificare il danno allo Stato ma credo che sia ancora maggiore.
Un cittadino potrebbe anche non farcela a
sopportare tutti i pesi sulle proprie spalle, potrebbe anche decidere
di farla finita.
Oppure potrebbe decidere di vendicarsi su
chi l’ha costretto a fare tale tipo di vita, facendosi giustizia da sé:
magari alla fine andrà a finire in galera, e graverà sul bilancio dello
Stato e sulla comunità per un importo infinitamente superiore ad un
eventuale aiuto. Detto questo si capisce subito che non è ragionevole
non aiutare una persona, e non è neppure conveniente per la comunità!
Ovviamente le cose non capitano sempre secondo la logica della
ragionevolezza, dipende dagli interessi economici in gioco. Cito un
esempio emblematico: quello del trafficante
di droga che oltre ad avere come clienti i consumatori, gestiva anche
un’attività di recupero tossicodipendenti. Un tossicodipendente
diventava fonte di guadagno due volte: prima come consumatore e poi
come paziente. Certamente non conviene allo Stato avere
tossicodipendenti, per tutta la comunità sono un costo sociale elevato,
però possono essere convenienti per una persona o gruppo, ed è per
questa ragione che esistono tante anomalie nello Stato. La gestione
della povertà e dei poveri rientra tra queste, come la gestione dei
rifiuti: paradossalmente viene a dire che ci troviamo in entrambi i
casi davanti a rifiuti: umani i primi, inanimati i secondi.
Sono anomalie, forse marcatamente italiane,
visto che negli altri paesi europei sembra che questi problemi siano
ben gestiti.
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